Il falso problema dell’euro “debole”
Di recente abbiamo parlato di carry trade, di quantitative easing e di franco svizzero. Non a caso, oggi è il turno del tasso di cambio tra euro e dollaro statunitense.
Dal suo debutto sui mercati finanziari nel 1999, passando per la successiva messa in circolazione a partire dal 1° gennaio 2002, l’euro – come tutte le valute – è stato oggetto di ampie oscillazioni di valore nei confronti delle altre valute mondiali. Tuttavia, il confronto che riscuote maggior interesse – tanto nell’economia reale, quanto in quella finanziaria – riguarda il sopracitato tasso di cambio €/$.
Un po’ di storia ci aiuterà a comprendere meglio le implicazioni dovute ad un euro “forte” ovvero “debole”. Al momento della sua introduzione, l’euro era scambiato nell’intorno di 1,18$, ma nel giro di pochi mesi si è indebolito a tal punto da raggiungere quota 0,85$, toccando il minimo storico di circa 0,84$ (nel luglio del 2001). Da quel momento in poi si è assistito ad un progressivo ed inarrestabile rafforzamento della moneta unica europea rispetto al dollaro, con gran parte dei mezzi d’informazione “orgogliosi” di narrare le gesta dell’eroico euro in grado di dar filo da torcere allo strapotere valutario del dollaro statunitense. Senza entrare troppo nel merito degli equilibri macro-economici e desiderosi di fornire, come sempre, delle semplici considerazioni in grado di portare alla riflessione i nostri lettori, cerchiamo di comprendere il perché un euro “troppo” forte non sia in assoluto sinonimo di positività per l’economia dell’eurozona.
Invitando quanti fossero interessati ad approfondire l’argomento a munirsi di un utile testo di economia politica, la prima conseguenza di un euro forte è una minore competitività delle imprese europee rispetto alle omologhe di Paesi nostri principali competitor commerciali, come USA e Giappone. Infatti, un valuta domestica forte determina un prezzo di beni e servizi più elevato rispetto a quelli prodotti nei Paesi extra-UE. Di converso, i Paesi dell’eurozona sono incentivati ad importare maggiormente dall’estero in virtù di una maggiore convenienza dei prodotti in valuta “debole”. Il risultato complessivo determina una tutt’altro che auspicabile penalizzazione dell’economia europea e della sua capacità di essere competitiva con il resto del mondo.
Passando ad analizzare alcuni dei principali vantaggi di una moneta unica europea “forte” (ma non troppo!), essi sono riconducibili ad un minor costo di approvvigionamento di materie prime (generalmente scambiate sui mercati mondiali in dollari), ad un livello generalmente inferiore dei tassi di interesse nella zona euro e, quindi, ad un ambiente economico europeo più favorevole.
Storicamente, l’andamento del tasso di cambio €/$ conferma i vantaggi e gli svantaggi appena presentati. A titolo esemplificativo, tassi d’interesse più alti in Europa rispetto agli Stati Uniti, un deficit sempre crescente della bilancia commerciale statunitense e l’impatto delle scelte di quantitative easing operate dalla Federal Reserve hanno determinato l’eccessivo rafforzamento dell’euro, conducendolo ai livelli record del 2008 (con il record storico di 1,60$ del 15 luglio 2008). I mesi seguenti, invece, sono stati caratterizzati da un indebolimento dell’euro e da una sua valutazione (meno estrema, ma comunque elevata) compresa tra 1,50$ e 1,20$.
In prospettiva, e in seguito alle decisioni della Fed e del QE avviato dalla BCE, sono in aumento le analisi che puntano ad un rapporto di parità tra dollaro ed euro. Il miglioramento dello stato di salute dell’economia a stelle e strisce, infatti, contribuisce a rendere sempre più probabile il rialzo dei tassi alla Fed. Sarà davvero così? Di certo il nostro impegno sarà rivolto a tenervi aggiornati sull’evoluzione del tasso di cambio euro/dollaro nel prossimo futuro, ma soprattutto sulle conseguenze che le sue variazioni comporteranno sia in riferimento alla nostra vita quotidiana, sia relativamente alle nostre scelte di risparmio e d’investimento.
Seguimi su Twitter => www.twitter.com/TaronnaL
Seguici anche su Facebook => www.facebook.com/lasettimanaeconomica