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gender pay gap

Immagine a cura di Andrea Noli

Ancora nel 2018, si assiste alla disparità di salario in base al sesso del lavoratore. La discriminazione di genere oltre ad essere illegale risulta anche anacronistica, essendo finito il Medioevo da qualche anno. Tuttavia nella società di oggi, persiste una diffusa usanza nel ritenere il lavoro delle donne meno “utile” dei loro colleghi maschi. Cerchiamo di capire in cosa consiste il problema e le sue ramificazioni.

Premessa, si parla di discriminazione quando due persone svolgono lo stesso lavoro ma hanno un salario diverso senza motivazione; pare evidente che un avvocato sia pagato più di un’operaia.

Fenomeno resistente

Fonte: ABC

Le differenze di salario tra uomini e donne sono una delle discriminazioni più lente nella loro decrescita. Mentre altri tipi di discriminazione stanno subendo importanti passo avanti nell’essere sradicate, quella salariale rimane quella con la diminuzione più bassa. Questa percentuale si aggira attorno all’1% annuo e secondo il britannico Chartered Management Institute, se questo trend persisterà, si dovrà aspettare il 2109 prima che ci sia uguaglianza salariale di genere. L’inefficienza di molte politiche attuate per arginare il fenomeno ha contribuito al suo rafforzamento ma qualcuna ha contribuito ad apportare miglioramenti. Tra queste ci sono le maggiori tutele legate alla maternità che risultano tra i principali motivi dei miglioramenti, seppur minuscoli, in tal senso.

Effetti prodotti dalla differenza nel salario

Il primo effetto è il più immediato: se le donne vengono pagate di meno, pagano meno contributi e questo porta loro ad avere pensioni più basse rispetto agli uomini. Inoltre, è scientificamente provato che statisticamente il minore salario è strettamente correlato alla bassa natalità di molti Paesi (Italia tra questi). In un mondo del lavoro già di per sé difficile, una giovane coppia ha difficoltà a far fronte alle diverse spese e questo porta molte donne a posticipare la ricerca del primo figlio e quindi a diminuire la probabilità del concepimento. (Avvertenza: l’autore non sta dicendo che avere figli sia obbligatorio, auspicato o altri concetti simili. Si sta parlando di donne che vorrebbero avere figli, la volontà di ciascuno è sopra ogni altra cosa). Secondo uno studio effettuato su dati ISTAT da Enrica Maria Martino per La Voce, il congedo per maternità fa sì che intorno ai vent’anni del figlio, la donna abbia perso circa il 12% della propria retribuzione. Il fenomeno del congedo per i padri è una politica che sta aiutando a migliorare la situazione ma la bassa richiesta di questi congedi fa sì che l’effetto non sia ancora di dimensioni rilevanti.

Perché questa discriminazione?

Le principali motivazioni che si attribuiscono a questo fatto, quasi a volerlo giustificare, sarebbero nella minore capacità e volontà delle donne nel negoziare i salari e quindi nell’intaccare la discriminazione di salario. Questi pregiudizi si stima che siano responsabili per una percentuale tra il 25 e il 40% della differenza di salario. Da questo punto di vista l’Unione Europea si presenta come una delle regioni che più hanno saputo combattere il fenomeno. La discriminazione diretta, ovvero meno paga per lo stesso lavoro, è stato ridotto a fenomeno raro grazie a leggi severe e sempre più diffuse.

Europa senza discriminazione di salario?

No. Mentre quanto detto in precedenza è vero, uno studio della Commissione europea ha evidenziato come un lavoro svolto maggiormente dalle donne, venga col tempo retribuito sempre meno. In parole povere, se il lavoro X viene svolto anche solo per il 50,01% da donne, questo subirà una generale diminuzione di salario con l’andare del tempo. Questo a prescindere che il lavoro in questione sia manuale, intellettuale o che richieda titoli di studio o meno. Tra i Paesi europei con il peggior piazzamento nella classifica, spicca l’Italia dove la discriminazione salariale non pare dare segni di cedimento. Uno studio del World Economic Forum su 144 Paesi, ha classificato questi in base a vari fattori. I primi posti sono andati come prevedibile agli Stati scandinavi mentre l’Italia risulta essere solo cinquantesima. Sopra di noi anche il Burundi, Paese che per molti dovrebbe essere inferiore in tutto al Bel Paese. Ma il razzismo è un tema per un altro articolo.

Problema culturale

Oltre ai già citati motivi economici, è stato evidenziato che un grosso ruolo nella discriminazione salariale è svolto dalla percezione che i colleghi di lavoro hanno della persona. Un uomo che svolge un lavoro visto come tipicamente femminile, viene visto come un soggetto con alta stima di sé e per questo ammirato e portato come esempio di modernità. Al contrario, una donna che lavori in ruoli intermedi (immaginatevi un’ipotetica catena di comanda di un’azienda) viene vista come priva di determinazione e ambizione nel cercare di arrivare al top e quindi considerata come un pezzo più debole dello scacchiere rispetto ad un collega maschio.

L’auto-discriminazione

Un fenomeno riscontrato sempre più di frequente è quello dell’auto-discriminazione. In sostanza, una donna sapendo che probabilmente subirà discriminazioni di salario, accetta con più probabilità lavori già di per sé meno retribuiti perché di bassa rilevanza nell’organico di un’azienda o nel mondo del lavoro in generale.

Conclusioni parziali

Come per molti problemi del mondo moderno, l’implementazione di politiche ad hoc non basta. Per quanto queste possano essere costruite in modo perfetto, non attecchiranno mai senza una base culturale pronta ad accettarle. La discriminazione salariale di genere, non è un fenomeno maschi contro femmine: è stato provato statisticamente che molte volte a discriminare le donne sono proprio altre donne in posizione di potere. Ovviamente rimangono i pregiudizi bigotti (e prevalentemente maschili) della donna come “sesso debole” e finché questi non saranno eradicati, le politiche per l’uguaglianza salariale non saranno mai in grado di avere un effetto di grossa portata.

Conclusioni finali

Siamo nel 2018, sveglia!!!