Le critiche alla teoria keynesiana
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In economia, si sa, certe posizioni vengono sbandierate in modo ideologico e senza il dovuto pragmatismo. Questo porta a definirsi keynesiani, classici, austriaci e a rigettare in toto il pensiero esterno, quasi come se ognuno abbia compreso la verità assoluta e non ci sia possibilità di replica.
Nel presente articolo ho cercato di sintetizzare le principali critiche (quindi non sarà un articolo esaustivo) rivolte alle politiche fiscali di tipo keynesiano dirette a regolare la domanda.
Critiche della scuola di Chicago
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Il punto di riferimento è la teoria monetarista della Scuola di Chicago il cui principale esponente è Milton Friedman (premio Nobel per l’economia nel 1976). Friedman contesta l’efficacia della politica fiscale come strumento per regolare la domanda nel breve-medio periodo, e sostiene che i ricorrenti squilibri del sistema economico hanno cause prevalentemente monetarie, sicché lo strumento più idoneo a garantire la stabilità è costituito dalle manovre poste in essere dalle banche centrali per regolare la quantità di mezzi di pagamento in circolazione (politica monetaria).
La politica monetaria è ritenuta preferibile rispetto a quella fiscale anche sotto il profilo delle tempestività. Si è osservato che le manovre sulle entrate e le spese pubbliche vengono attuate mediante procedure legislative e amministrative piuttosto lunghe e complesse, tanto che, in molti casi, i loro effetti si verificano con ritardo e nel momento sbagliato, quando la mutata situazione del mercato richiederebbe ormai un intervento di tipo inverso.
Critiche della Scuola delle scelte pubbliche
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A questo “sfasamento temporale” (lag) si aggiunge un altro ordine di condizionamenti che ostacolano una corretta applicazione delle manovre di finanza pubblica e che sono stati utilizzati soprattutto da James M. Buchanan (premio Nobel per l’economia nel 1986) e dalla sua Scuola delle scelte pubbliche.
In una democrazia rappresentativa gli organi politici devono rispondere alle richieste dei propri elettori e, in genere, sono restii a effettuare scelte di politica fiscale che possano apparire impopolari o provocare tensioni sociali. Gli interventi di finanza funzionale sono attuati con facilità (e a volte con leggerezza) quando si tratta di espandere la spesa pubblica o alleggerire la pressione dei tributi, mentre vi sono non poche remore di fronte alla necessità di provvedimenti restrittivi.
Critiche della nuova macroeconomia classica
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Ancora più drastiche sono le formulazioni della nuova macroeconomia classica, il cui principale esponente è Robert Lucas (premio Nobel per l’economia nel 1995). Assumendo come base la teoria monetarista, ma andando ben oltre le tesi di Friedman, si sostiene che l’unico intervento pubblico efficace è quello che consiste in manovre monetariste rapide ed improvvise. Qualunque altro strumento di politica economica è ritenuto inutile perché gli operatori economici determinano il proprio comportamento sulla base delle aspettative razionali, utilizzando al meglio tutte le informazioni di cui dispongono; di conseguenza, essi sono in grado di valutare i possibili effetti delle manovre annunciate o comunque prevedibili e modificare la propria attività in modo da neutralizzarli.
Si osserva, infine, che le manovre di breve periodo dirette a regolare la domanda sottopongano l’economia a un continuo alternarsi di frenate e spinte (stop and go), che distolgono risorse da interventi strutturali e a lungo andare ostacolano lo sviluppo.
Critica generale
Una critica generale che viene mossa all’approccio keynesiano inerente la regolazione della domanda sta nel fatto che il tutto è manipolato dall’alto.
Per farla breve, la critica si potrebbe riassumere nella frase “sai ciò di cui hanno bisogno le persone meglio delle persone stesse?”.
Questa visione è ampiamente ripresa da tutti coloro che invocano un minor impatto dello Stato in economia e una maggior visione improntata al mercato quale mezzo di auto-equilibrio.