Il comune legame con il 9/11 per esempio. Uno il Paese colpito e l’altro quello che ha dato i natali a quindici dei 19 attentatori. Altro? Il comune odio verso l’Iran. Finito? Vediamo se c’è dell’altro.
L’Arabia Saudita è una monarchia assoluta islamica, situata nella penisola araba e posizionata in un posto privilegiato dello scacchiere mediorientale, che la rende confinante con ben sette Stati. Tra questi troviamo il Qatar, con il quale i rapporti sono tesi (eufemismo) e lo Yemen, nel quale una coalizione a guida saudita sta attualmente portando avanti un intervento armato.
L’Arabia Saudita è membro dell’OPEC e vanta le più grandi riserve di petrolio al mondo. Inoltre, possiede una delle maggiori riserve di gas naturale. Questo patrimonio ha permesso al Paese di modernizzarsi e passare da essere uno dei più poveri al mondo, all’essere uno dei più ricchi. Con il petrolio è arrivata anche la possibilità di essere più rilevanti nel panorama internazionale, grazie al bisogno sempre presente di offerta per l’oro nero. Tra questi compratori, lo storico alleato statunitense.
Nelle ultime settimane il legame tra Arabia e U.S.A. è tornato sulle prime pagine dei giornali a causa dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. L’uomo, un cittadino saudita che lavorava per il Washington Post. Il due ottobre l’uomo è entrato nel consolato saudita a Istanbul per non uscirne più da uomo vivo. La sua attività contro il regime saudita e le sue politiche ne hanno determinato, con tutta probabilità, la sua uccisione.
Khashoggi si era trasferito in America nel 2017 e, come detto, scriveva per il Washington Post. In virtù di questo, ci sono state forti pressioni verso Trump per congelare gli accordi con gli arabi fino a quando non sarà chiarito cosa sia successo.
Nel 2017, Donald Trump ha autorizzato la vendita di quasi centodieci miliardi di Dollari in armi, al regime saudita. A ragione di questo, “The Don” ha inizialmente affermato che non intendeva bloccare l’invio degli armamenti in quanto l’accordo portava molte risorse finanziarie nelle casse a stelle e strisce e creava molti posti di lavoro.
Dopo la seconda guerra mondiale, in Arabia Saudita erano ancora stanziati molti soldati statunitensi. Questo legame, oltre che economico era anche “geopoliticamente” strategico: gli Stati Uniti volevano impedire la diffusione del comunismo e l’Arabia divenne il loro scudo primario nel Medio Oriente. Nel 1950, i sauditi e l’Arabian American Oil Company si accordarono per dividere equamente i profitti derivanti dalle attività petrolifere.
Il legame tra i due Stati, tra alti e bassi, era in piedi da decenni ma una rottura definitiva era all’orizzonte. Nell’ottobre 1973, una coalizione composta da Egitto e Siria invase la penisola del Sinai. Era l’inizio della guerra dello Yom Kippur. Gli Stati Uniti si schierano con l’altro storico alleato, Israele, mentre l’Arabia Saudita era dalla parte degli Stati arabi. Per ripicca, l’OPEC varò un embargo sul petrolio contro americani e europei che portò alla crisi petrolifera.
Dopo l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq e della successiva protezione dell’Arabia da parte degli Stati Uniti, i rapporti tornarono amichevoli. Da allora, un numero variabile (ma nell’ordine delle decine di migliaia) di soldati americani rimangono nel territorio saudita.
Nel 2010, i due Paesi conclusero un accordo per la cifra record (per allora) di sessanta miliardi e mezzo di Dollari, manco a dirlo per la vendita di armi.
L’importanza strategica dell’Arabia Saudita e la leva che essa può utilizzare attraverso il petrolio rendono improbabile che gli Stati Uniti rinuncino definitivamente a commerciare e sostenere i sauditi. La percepita minaccia dell’Iran da sola costituisce una buona ragione perché i due Paesi continuino a fare fronte comune. Le dichiarazioni di Trump sul punire i sauditi in caso di provata colpevolezza dei sauditi nell’omicidio di Khashoggi, appare più una frase di circostanza che un effettivo impegno.