Alla luce della recente crisi finanziaria e del modo in cui è stata gestita dall’Europa la crisi greca, il nome di Keynes e delle sue teorie sta tornando di grande attualità nei dibattiti tra gli economisti. L’evidenza empirica mostra, allo stato attuale, l’inefficienza del liberismo economico, delle politiche di austerità e del laissez-faire. Di seguito verranno esposte le basi dei due pensieri economici.
Il dibattito economico tra i sostenitori del liberismo economico e i keynesiani sembrava oramai cessato con la vittoria dei primi sui secondi, con questi ultimi destinati a rimanere un lontano ricordo da inserire solamente nei libri di filosofia, di storia del pensiero economico e di economia politica.
Invece, il nome di Keynes e delle sue teorie è tornato prepotentemente in risalto, soprattutto alla luce dei recenti eventi finanziari, mostrandosi di fatto come una delle principali alternative alle politiche di austerità europee.
Per liberismo economico si intende una corrente di pensiero basata sulla convinzione che gli agenti economici siano in grado di gestire e regolare in maniera autonoma i propri affari, e che solo perseguendo il proprio interesse individuale, si può raggiungere il benessere della società. Allo Stato è affidato dunque il ruolo di mero regolatore; esso cioè non deve intervenire direttamente nelle scelte economiche ma deve occuparsi, ad esempio, di eliminare eventuali distorsioni di mercato che disincentivano la concorrenza tra le imprese.
Un esempio di distorsione economica è da ricercare nella presenza di cartelli dove con tale termine si fa riferimento ad accordi stipulati tra due o più imprese sul prezzo o sulla quantità di beni e servizi in circolazione, in modo da escludere i propri competitors dal mercato di riferimento. Il principale esponente del liberismo economico è stato Adam Smith (1723-1790). Nella sua opera “Ricerca sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni” (1776), egli evidenzia i tre principi dell’economia di mercato:
1) il principio dell’interesse individuale;
2) il principio della mano invisibile;
3) il principio del libero scambio.
Nell’enunciare il principio dell’interesse individuale, egli evidenzia che il lavoro produttivo è soltanto manuale e da esso si creano beni di valore commutabile nel tempo per il produttore.
Per questo motivo:
[…]non è nella benevolenza del fornaio, del macellaio o del birraio che noi ci aspettiamo di vedere servita la nostra cena, ma è dalla considerazione che loro stessi hanno del proprio interesse […] .
Perseguendo il proprio interesse individuale, ciascun individuo contribuisce al benessere collettivo più velocemente di quanto accadrebbe se lo Stato lo promuovesse da sé.
La critica più importante al liberismo economico di Adam Smith, David Ricardo e agli altri suoi sostenitori proviene da John Maynard Keynes (1883-1946), padre della macroeconomia moderna e ispiratore del New Deal durante la crisi economica del 1929.
Egli si forma sotto l’influenza di Alfred Marshall (1842-1924), un altro grande economista della scuola neoclassica e, come il suo maestro, accetta i principi del libero mercato. Ben presto, tuttavia, comincia a maturare una propria idea che va in netto contrasto con la sua stessa formazione accademica e scientifica. Critica ad esempio la mano invisibile di Adam Smith e la conseguente capacità dei mercati di autoregolarsi nel lungo periodo. La frase con cui Keynes nel 1923 critica apertamente il laissez-faire, è la seguente: «ma questo lungo periodo è una guida fallace per gli affari correnti. Nel lungo periodo siamo tutti morti».
Tra il 1925 e il 1926 tiene un discorso alla Liberal Summer School di Cambridge e alla Manchester Reform Club, dove egli manifesta il suo scetticismo sia verso i conservatori liberisti sia verso l’ideologia marxista. Essere un liberale per lui significa infatti coniugare lo sviluppo economico con la giustizia sociale. Queste sue considerazioni verranno successivamente trascritte sia nell’opera intitolata “Sono un liberale?” pubblicata negli anni ’30 del secolo scorso e sia in un altro suo grande libro intitolato “La fine del laissez-faire”.
L’apice della sua carriera di economista Keynes lo raggiunge nel 1936 con la
pubblicazione della sua opera più famosa intitolata “Teoria Generale dell’Occupazione , dell’Interesse e della Moneta” con cui vuole dimostrare che non esiste una tendenza automatica all’equilibrio di piena occupazione ragion per cui, egli nega ad esempio, l’esistenza della mano invisibile di Adam Smith. Dunque, per Keynes lo Stato deve intervenire a sostegno dell’economia per assicurare l’equilibrio di mercato. Alla base della Teoria Generale sono posti tre principi fondamentali:
1) la domanda effettiva;
2) il moltiplicatore del PIL;
3) la teoria della preferenza per la liquidità.
Per Keynes, in un periodo di disoccupazione, se lo Stato riempisse di denaro vecchie bottiglie di vetro, assumesse dei lavoratori per scavare delle buche nel terreno per sotterrare le bottiglie di vetro ed in seguito, ricoprisse le buche medesime e lasciasse all’iniziativa privata il compito di dissotterrare le bottiglie secondo i principi del laissez-faire, allora non dovrebbe più esistere disoccupazione. Naturalmente per Keynes, è più logico investire in opere di pubblico interesse ma in assenza di tale circostanza, scavare buche per sotterrarci
bottiglie di vetro, come evidenziato in precedenza, sarebbe meglio di niente.
Il principio della preferenza per la liquidità indica la capacità di un soggetto di scegliere, in base alle condizioni del mercato, se tenere moneta sotto forma di liquidità o al contrario, se detenere la propria ricchezza utilizzando forme diverse rispetto al denaro liquido: ad esempio tramite l’acquisto di obbligazioni o
altri titoli di stato. L’individuo è incentivato a detenere più liquidità soprattutto in condizioni di incertezza del mercato, dove il prezzo dei titoli diminuisce e il tasso d’interesse aumenta motivo per cui, l’individuo venderà i suoi titoli ricevendo in cambio denaro liquido. Dunque, per Keynes il tasso d’interesse dipende dalle aspettative dell’individuo e dall’incertezza dei mercati e non dall’incontro tra
la domanda e l’offerta di fondi a prestito, come credevano, al contrario, i sostenitori della teoria mainstream. Se il tasso d’interesse non è la componente economica che porta in equilibrio la domanda e l’offerta, l’unica grandezza economica in grado di riuscirci è il reddito nazionale.