La politica economica di Donald Trump: riassunto delle misure
Dal 20 Gennaio 2017, Donald Trump è il 45° presidente degli Stati Uniti d’America. Il magnate del partito Repubblicano, punta a confermarsi alle presidenziali che si terranno tra cinque mesi. Dopo cinque anni di amministrazione, è arrivato il momento di tirare le somme dell’amministrazione di The Donald: in campagna elettorale contro l’allora avversaria Hillary Clinton, promise di far tornare l’America grande (celebre il motto “Make America Great Again”). Ci è riuscito realmente? E’ questa la domanda alla quale si cercherà di rispondere in questo dettagliato report che si occuperà principalmente delle politiche economiche messe in campo dalla sua amministrazione.
Tax Cuts and Job Act: il fiore all’occhiello?
Come promesso in campagna elettorale, la prima riforma sostanziale di Trump ha riguardato un taglio alla tassazione sulle imprese; sostanzialmente la flat tax di cui tanto si riempiono la bocca quei ciociari dei sovranisti nostrani. Tra i provvedimenti maggiormente criticati e costosi si ha l’abbassamento della tassazione per le imprese statunitensi dal 35% (tra “le più alte del mondo industrializzato”) al 21%, per rendere i colossi americani maggiormente competitivi sul mercato mondiale. Gli altri provvedimenti sono:
- Sgravi fiscali per l’82% di famiglie della classe media
- Ulteriori 1000$ in credito di imposta per ogni figlio in sgravi fiscali per i genitori che lavorano
- Semplificazione del deposito fiscale raddoppiando la detrazione standard
- Riduzione delle tasse per le LLC (società a responsabilità limitata) del 20%
- Alleggerito l’onere fiscale per oltre 500 aziende, che hanno usufruito di bonus per aumentare il salario di 4,8 milioni di lavoratori.
- Aumentato la soglia sotto la quale vengono tassati i beni ereditati (dal 5,5% al 10%)
Ulteriori dati sul sito Exportusa. Ma quanto è costata la “più grande riforma fiscale da 30 anni”? Come riporta Wikipedia:
Il costo complessivo della riforma è stimato in 1,46 trilioni di dollari in dieci anni, cifra che dovrebbe ridursi a circa mille miliardi per le casse pubbliche tenendo conto degli effetti positivi sull’economia
La proposta ha avuto gli effetti sperati? Come si può notare dal grafico successivo, il Pil Usa è cresciuto costantemente dopo l’approvazione dell’ARRA di Obama, ed era ancora in crescita immediatamente prima dell’approvazione della riforma fiscale trumpiana.
Dopo l’approvazione (avvenuta nel Dicembre 2017), il Pil Usa ha registrato un’impennata repentina, soprattutto nei trimestri immediatamente successivi e in una parte del 2019, dove ha iniziato a stabilizzarsi sui livelli dei periodi precedenti la riforma. In numeri, il Pil Usa ha registrato una crescita di oltre il 3% nel 2017 e nel 2018, ma nel 2019 ha subito un decremento tornando a rasentare la soglia del 2%, una cifra lontana dal 4,5 o addirittura il 6% promessi da The Donald.
A questi risultati non scarsi, ma assai modesti se presi in relazione alle risorse messe in campo, è seguito un grande indebitamento: sotto Trump il disavanzo federale è aumentato di ben 2,8 trilioni di dollari. Come riporta Linkiesta, inoltre, le misure messe in campo da Trump non hanno sortito l’effetto sperato perché, come spiega il famoso economista Stiglitz “anziché essere immessi nell’economia reale, stimolando gli investimenti, i denari sono rimasti nel mercato, gonfiando i mercati finanziari”. Le parole del Nobel per l’economia sono anche una spiegazione dei continui massimi dei principali indici americani come Dow Jones e Nasdaq, senza alcuna correlazione con l’economia reale. Si è parlato di mercati “drogati”, soprattutto perché, anche nel periodo più nero della pandemia di Coronavirus, con le principali economie mondiali in ginocchio, gli indici americani continuavano a volare. Si è parlato del fenomeno anche in un articolo precedente.
Revisione della Dodd-Frank
Obama fu eletto in un clima incandescente: la bolla dei mutui subprime aveva messo in ginocchio Wall Street e tutto il sistema del credito, seguito a ruota dall’economia. In questa situazione fu approvato il provvedimento Dodd-Frank, un colosso di 8000 pagine di regole e norme per tutelare i consumatori. Come riportato sul sito Borsa Italiana, tra le decisioni più importanti:
- Regolamentazione del mercato dei derivati, che passano dal mercato OTC all’area di influenza del SEC (la Consob americana)
- Protezione dei consumatori tramite il rafforzamento delle agenzie preposte
- Creazione dell’Office of credit ratings presso il SEC per monitorare le agenzie di rating
- Istituzione di un’agenzia per individuare rischi sistemici all’interno del sistema economico americano
- Evitare che le banche utilizzino i fondi dei clienti per operare sui mercati finanziari.
Le modifiche portate da Trump e votate anche da democratici scettici sulla bontà del provvedimento voluto da Obama, smontano completamente una legge ancora “incompleta” (delle 390 regole attuative necessarie ne sono state approvate solo 280), rendendola valevole solo per una decina di istituti bancari. La revisione di Trump prevede infatti l’alzamento della soglia oltre la quale gli istituti bancari devono sottostare alle rigide regole del Dodd-Frank (da 50 a 250 miliardi di dollari), esonerando di fatto la stragrande maggioranza delle banche medio-piccole, che da sempre hanno avversato la proposta. “Le banche sono libere di fare danni” scrive Repubblica all’indomani dell’approvazione. La crisi dei mutui Subprime aveva i suoi germi nella liberalizzazione del sistema bancario del ’94. La storia si ripeterà o basteranno le misure, seppur fortemente ridimensionate, del nuovo Dodd-Frank?
Verso la piena occupazione
Un successo sventolato spesso da Trump sono senza dubbio i dati dell’occupazione. Se si esclude il periodo della pandemia, in cui milioni di posti di lavoro sono stati bruciati e la richieste di cassa integrazione sono volate alle stelle, si può essere d’accordo con quanto riportato dal sito dell’attuale presidente:
Dalla sua elezione, le politiche a favore della crescita dell’amministrazione Trump hanno generato 6 milioni di nuovi posti di lavoro, il tasso di disoccupazione è sceso al suo punto più basso in 50 anni e i salari sono cresciuti di oltre il 3% per 10 mesi consecutivi.
Sempre sul sito si legge della creazione di mezzo milione di posti di lavoro in più nel settore manifatturiero.
Tuttavia, come si può notare dal grafico, la tendenza ribassista della percentuale di disoccupati è iniziata con Obama, raggiungendo il 3,5% con Trump (numeri simili non si vedevano da 50 anni). I settori che hanno visto una forte crescita di occupati sono stati quello finanziario, dell’assistenza sociale e della ristorazione (fonte: sito ISPI).
Nonostante egli si sia presentato come il paladino degli industriali e dei lavoratori nell’ambito manifatturiero, nonostante i numeri riportati sul sito, questo settore aveva il dato di occupati peggiore dal 2016 già prima della pandemia, a prova del fatto che le misure introdotte con il Tax Cut and Job Act abbiano aiutato quasi esclusivamente le multinazionali.
Dal grafico seguente invece si può notare l’effetto disastroso del Covid sugli occupati Usa, non certo ascrivibile a Trump. Il dato dei disoccupati tornerà a scendere e raggiungere i livelli record anti-crisi? Dipenderà dalla robustezza del sistema economico americano: sarà un interessante esperimento sull’efficienza delle misure dell’amministrazione repubblicana.
La politica dei dazi: un autogol?
Trump ha fatto della politica dei dazi una delle sue battaglie di bandiera. Ma cosa sono?
I dazi doganali sono imposte sulle importazioni di beni in arrivo da altri Paesi. Sono strumenti di politica economica, tecnicamente definiti barriere tariffarie, volti a proteggere le filiere produttive locali rispetto alla concorrenza estera. L’applicazione di tributi sulle merci in ingresso rappresenta anche una fonte di entrate fiscali per il Paese importatore.
Trump ha sventolato la promessa di proteggere le aziende americane dall’aggressività e dalla concorrenza sleale di paesi con un saldo commerciale positivo come Germania e, in modo particolare, la Cina. Questa scelta di politica economica, criticata dai maggiori economisti, ha due obiettivi. Come viene riportato sul sito Il Post:
Il primo: contrastare le sovvenzioni del governo cinese ai settori industriali destinati alle esportazioni, una strategia che il governo cinese adotta in modo da poter esportare prodotti a prezzi competitivi e spiazzare la concorrenza. Il secondo: proteggere le proprietà intellettuali delle aziende americane, che i cinesi spesso riescono a violare imponendo alle società che vogliono stabilirsi in Cina di fare joint venture con imprese locali e di condividere i loro brevetti
I dazi di Trump hanno inizialmente colpito alluminio e acciaio importato, rispettivamente con una tassazione al 10 e al 25%. Si sono poi evoluti colpendo la Cina in particolare, con varie tassazioni su smartphone, laptot, semiconduttori e motociclette, settori in cui il paese orientale ha un forte vantaggio comparato.
Ma le tassazioni hanno sortito l’effetto sperato?
Questa scelta economica è in realtà a tutti gli effetti una scelta politica: il vero obiettivo di Trump era quello di far sedere la Cina ad un tavolo per negoziare un accordo per un commercio più “giusto ed equo”, come il tycoon stesso affermò a Davos (fonte Repubblica). Il consigliere economico del presidente, Peter Navarro, in un articolo del Wall Street Journal si complimenta con Trump perché è stato grazie ai dazi che si è riusciti a costringere la Cina a firmare un accordo che a prima vista sembra a favore degli USA. Questo negoziato, firmato nel Gennaio del 2020, prevede che la Cina incrementerà le importazioni dagli USA di prodotti agricoli e si impegnerà in una serie di investimenti nel settore dell’energetico. Gli States invece si impegnano a revocare dei dazi per un controvalore di 160 miliardi. Nonostante l’accordo definito “epocale” da Trump stesso, sono ancora molti i dazi che colpiscono le importazioni cinesi. Questi ultimi verranno aboliti una volta entrati nella Seconda Fase dei negoziati, come scrive Repubblica.
L’accordo non è stato accolto di buon grado, in quanto non tocca gli obiettivi sopra detti, fissati da Trump stesso: sostanzialmente non andrà a modificare la situazione di vantaggio “sleale” della Cina sugli USA in quanto non mette mano a nessuna delle cause che provocano ciò. Inoltre, come scrive Bloomberg, l’accordo ha “direttive socialiste” in quanto definisce per filo e per segno le aree in cui investirà la Cina, lasciando poco spazio alla libertà del mercato.
Inoltre, come se non bastasse, a causa dei dazi, si sono registrate forti perdite occupazionali nel settore manifatturiero, proprio quello di cui Trump si sente rappresentativo.
In definitiva, i dazi, nell’ottica del presidente, non sono solo uno strumento economico mirato a proteggere l’economia interna, ma anche e soprattutto uno strumento di pressione politica, l’arma privilegiata nella Guerra Commerciale iniziata due anni fa.