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Un’altra vittoria dei paradisi fiscali? Il caso Apple-Irlanda

Era il 2016 quando la Commissione Europea ordinava ad Apple il pagamento di 14,3 miliardi di dollari all’Irlanda a causa dell’accordo sugli sgravi fiscali siglato tra la società californiana e Dublino, che la politica europea ha inteso come “aiuti di stato illeciti“. Ieri una sentenza del tribunale UE ha dato ragione allo schieramento Apple-Irlanda, che hanno clamorosamente sconfitto la politica comunitaria. Il caso è indicativo di una situazione generalizzata che è giusto approfondire.

La storia della battaglia legale

In un articolo del Sole 24 Ore, viene riassunta molto bene come si è giunti alla sentenza:

L’oggetto del contendere erano due accordi fiscali sottoscritti nel 1991 e nel 2007 dalle autorità irlandesi in favore di Apple […]. La Commissione aveva accusato Dublino di aver concesso un trattamento preferenziale ad Apple, permettendo al gruppo di pagare un’aliquota inferiore all’1% sui profitti realizzati in Europa (per scendere allo 0,005% nel 2014). Da qui la classificazione come «aiuto di Stato illegale» e l’ingiunzione di restituire al fisco irlandese una cifra complessiva di 14,3 miliardi (13 miliardi di imposte arretrate e 1,3 miliardi di interessi). La decisione era stata respinta sia da Apple che dalle stesse autorità irlandesi, ostili a un rimborso che avrebbe compromesso i rapporti instaurati con le multinazionali del tech grazie a una strategia esplicita di «ottimizzazione fiscale».

A Dublino viene contestato l’applicazione una tassazione differente ad un’impresa rispetto alle altre, molto più bassa dell’aliquota normale (12,5%).

La sentenza del tribunale UE

Il tribunale UE, contro ogni pronostico, da ragione all’accordo Apple-Irlanda. Perchè? Dalla sentenza si legge:

la Commissione ha sbagliato a dichiarare che la Apple ha avuto un vantaggio selettivo e quindi, per estensione, un aiuto di Stato. […] la Commissione avrebbe dovuto dimostrare che il reddito rappresentava il valore delle attività realmente portate avanti dalle filiali irlandesi

Anche se può sembrare che il tribunale si schieri con il colosso del tech e Dublino, nella sentenza è scritto che:

Nonostante il Tribunale si rammarichi della natura incompleta e talvolta inconsistente del tax ruling contestato, i difetti individuati dalla Commissione non sono, da soli, sufficienti a provare l’esistenza di un vantaggio

In soldoni: la magistratura europea si rende conto che l’accordo tra Apple e Irlanda non sia pienamente corretto in ottica comunitaria; tuttavia la commissione ha contestato delle parti dell’accordo che non sono perseguibili. Una sorta di “Ritenta, sarai più fortunato“.

Una vittoria dei paradisi fiscali?

Sempre secondo il Sole 24 Ore, proprio il 15 Luglio, giorno della sentenza del tribunale, la Commissione Ue aveva dichiarato di voler attuare una stretta su quei paesi che adottano un regime fiscale aggressivo. Gli esponenti più attivi su questo fronte sono Paolo Gentiloni e la vice presidente della commissione Margrethe Vestager. Quest’ultima aveva portato Google, in seguito a delle indagini dettagliate, al pagamento di una multa da 8 miliardi.

Nonostante l’impegno della Commissione a trovare la quadra sulla Web tax, la sentenza del tribunale rappresenta una vittoria non solo per l’Irlanda e Apple, ma per tutti quei paesi UE che, grazie a una tassazione speciale, attirano investimenti esteri che poi vanno a ricadere positivamente sul PIL. Si tratta, paradossalmente, di paesi come Olanda, Lussemburgo, Malta, Cipro e Ungheria, che chiedono maggiore rigore sui bilanci UE. Questo paradosso è stato sottolineato da Roberto Rustichelli, presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che afferma:

“Paesi come l’Irlanda, l’Olanda e il Lussemburgo sono veri e propri paradisi fiscali nell’area euro che attuano pratiche fiscali aggressive, che danneggiano le economie degli altri Stati membri e che, anche grazie a queste pratiche, registrano elevatissimi tassi di crescita

Influenza degli investimenti esteri sul Pil

Sempre Rustichelli, parla della normativa comunitaria in vigore e dei buchi che permettono alle multinazionali e ai paesi sopracitati di aggirare le regole:

L’attuale quadro normativo dell’Unione europea determina una disparità di condizioni concorrenziali nel mercato tra Stati membri e operatori, in quanto, da un lato, favorisce il dumping fiscale e contributivo tra Paesi e, dall’altro, è inadeguato a garantire una tassazione efficace ed equa dell’economia digitale

Quanto ci perde l’Italia?

Per dare un’idea di che cosa implichi la concorrenza sleale che applicano questi paesi, basta studiare l’immagine seguente:

Come spiega in un articolo a cura dell’Osservatorio dei Conti Pubblici:

nel 2019 l’Italia avrebbe perso quasi 24 miliardi di dollari (il 19 per cento dei ricavi dalla tassazione delle multinazionali), a causa di paradisi fiscali e paesi fiscalmente aggressivi. Di questi 24 miliardi, 21 sarebbero andati a paesi UE

Conclusioni

Nonostante il libero mercato rappresenti un indubbio fattore di crescita delle nazioni, le sue versioni distorte e sleali che alcuni paesi adottano sortiscono l’effetto contrario, danneggiando l’assetto complessivo dell’economia e, nel caso europeo “la tenuta stessa dell’Unione“. Le frizioni tra i paesi membri e le tassazioni agevolate nei confronti di aziende multinazionali, porterebbe a due conseguenze drammatiche:

  • Perdita di coesione politica dell’Unione, con conseguente debolezza contrattuale in dispute internazionali
  • Debolezza contrattuale dei paesi stessi, in quanto le multinazionali potrebbero usare i posti di lavoro creati come un’arma di ricatto

E’ necessaria dunque, nell’interesse generale, una normativa comune più forte per arginare questo fenomeno.