Erik Thedéen, direttore dell’Autorità di vigilanza finanziaria svedese, e Björn Risinger, direttore dell’Agenzia di protezione ambientale svedese, in una lettera aperta hanno chiesto all’europa di proibire i metodi di mining ad alto consumo di energia.
probabilmente la risposta più giusta a questa domanda sarebbe un banalissimo TANTO!
Chiaramente è impossibile stimare con esattezza il consumo energetico legato al processo di mining tuttavia gli osservatori sembrano concordi sul fatto che si tratti di cifre esorbitanti.
Alex De Vries, esperto olandese che si è a lungo occupato dell’impronta ecologica delle crypto currencies sostiene che il mercato delle crypto attualmente consumi più energia delle tradizionali attività finanziarie e che nemmeno le fonti rinnovabili sarebbero in grado di rendere il processo sostenibile.
Sempre De Vries ha stimato per Al Jazera il consumo delle varie cryptocurrency. Secondo l’esperto le valute più diffuse sarebbero le più costose da minare, il bitcoin richiederebbe 114 TWh, mentre ethereum si attesterebbe su 44 TWh.
Questa classificazione apparirà abbastanza scontata a chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il funzionamento del processo di mining. La creazione di una moneta virtuale tende a divenire infatti più complessa, e conseguentemente più lunga ogni volta che ne viene generata una, pertanto è logico che le valute più diffuse finiscano anche per essere le più dispendiose in termini energetici.
In un altro articolo avevo già parlato dei numerosi paesi entusiasti delle cryptovalute impegnati in una estenuante gara per accaparrarsi il titolo di “paradiso del bitcoin”. tuttavia la crescente attenzione per le problematiche ambientali ha spinto molte nazioni a guardare con crescente diffidenza al fenomeno.
La Pepoles Bank of China a partire da maggio ha iniziato a limitare le transazioni in cryptovalute, sino ad arrivare ad un Ban completo in novembre. Questo ha ovviamente provocando l’esodo delle principali compagnie del settore dal paese, non riuscendo comunque a fermare il mining nel paese. Alla radice della decisione ci sarebbero motivazioni simili a quelle addotte dagli esperti svedesi. Pechino ha infatti indicato la volontà di rimuovere un pesante ostacolo verso la carbon neutrality che il presidente Xi Jinping mira a raggiungere nel 2060.
Al momento anche l’India sembra avviata nella stessa direzione. Sul finire dello scorso anno ha fatto molto discutere una dichiarazione del premier Narendra Modi che aveva accusato le cryptovalute di «rovinare la nostra gioventù». Il primo ministro vorrebbe però proibire soltanto le monete “private”, creando nel contempo una «Moneta virtuale nazionale» emessa direttamente dalla Reserve Bank of India.
Più vicino a noi troviamo invece il caso del Kosovo. La piccola repubblica balcanica all’inizio di questo anno ha deciso di proibire il mining. La decisione, in questo caso è motivata con la necessità di far fronte alla scarsità energetica nel paese più che con argomenti “green”, ma ci dimostra comunque il peso che questi attività presentano ai consumi elettrici dei paesi.
È difficile prevedere se le istituzioni comunitarie decideranno di accodarsi ai due colossi asiatici, o alla corsa per il titolo di “paradiso del bitcoin” o se semplicemente sceglieranno di non intervenire, lasciando magari ai singoli stati il compito di legiferare.
Quello che è certo è che il tema sembra destinato a far discutere ancora, principalmente a causa dell’ampio spazio che le problematiche ambientali ricoprono nel discorso pubblico europeo. Il vecchio continente sembra infatti sempre più interessato alle problematiche ambientali ed energetiche, specialmente all’intensificarsi delle tensioni tra Russia e Ucraina .
Dobbiamo inoltre considerare che i kw/h destinati al “estrazione” di cryptovalute sono probabilmente destinati ad aumentare con il passare del tempo. Sia per le specificità del processo di mining di cui ho appena parlato sia per il crescente interesse che la popolazione rivolge verso questo tipo di investimenti
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