Il taglio dei parlamentari ha effettivamente portato un vantaggio economico nelle tasche dello Stato? I dati parlano chiaro.
Sono passati quattro anni dalla riforma costituzionale che ha ridotto il numero dei parlamentari in Italia, un cambiamento che ha promesso di ridurre la spesa pubblica e rendere il sistema democratico più efficiente. A due anni dall’inizio della XIX legislatura, quando questa riforma è stata effettivamente implementata, è tempo di valutare se ha effettivamente portato i risultati sperati. Tuttavia, ciò che emerge è un quadro tutt’altro che roseo. Come evidenziato dalla Fondazione Openpolis, che monitora l’evoluzione della democrazia italiana, la riduzione dei parlamentari ha portato più problemi che benefici, sia dal punto di vista operativo che democratico.
La riforma del 2020, che ha ridotto il numero dei senatori da 315 a 200 e quello dei deputati da 630 a 400, è stata giustificata come un atto di “purificazione” del Parlamento. Prometteva di tagliare gli sprechi e di rendere il processo legislativo più snello e funzionale. In molti, all’epoca, sottolinearono come questa riduzione avrebbe potuto anche avvicinare i cittadini ai propri rappresentanti, rendendo più immediato il contatto tra elettori ed eletti.
La realtà, però, sembra essere ben diversa. I risparmi attesi sono quasi impercettibili. I dati contabili dimostrano che la riduzione delle spese non è così significativa come inizialmente prospettato. Nel rendiconto di Montecitorio per l’anno 2023, le spese impegnate sono scese di soli 6 milioni rispetto al 2021, quando la riforma non era ancora operativa. Si tratta di una cifra esigua, considerato che l’intera operazione era stata venduta come un modo per ridurre significativamente i costi della politica. A conferma di ciò, i dati sul Senato mostrano che la spesa corrente è rimasta sostanzialmente stabile nel triennio 2020-2022, con un leggero aumento previsto per il 2023.
Ma il problema principale non riguarda solo i risparmi mancati. Il cuore della questione è che il ruolo del Parlamento sembra essersi ulteriormente ridotto con la diminuzione del numero dei parlamentari. L’osservazione della Fondazione Openpolis è chiara: «Le leggi passano sempre più dal governo». Questo fenomeno si è acuito negli ultimi anni, e la riduzione dei parlamentari sembra averlo ulteriormente accelerato. Dall’inizio della XIX legislatura, il 41,7% delle leggi entrate in vigore sono state conversioni di decreti legge. Si tratta di una percentuale molto alta, superata solo dal governo Letta (58,3%) che, però, è rimasto in carica per un periodo più breve. Per dare un’idea di confronto, il governo Conte II si era fermato al 34,3%.
L’abuso dei decreti legge, strumento che permette al governo di bypassare il normale iter legislativo, dimostra come il Parlamento abbia perso progressivamente la sua centralità. I dati di Openpolis evidenziano come il governo Meloni, attualmente in carica, stia emettendo decreti legge con una media mensile simile a quella del periodo pandemico: 3,05 al mese, in linea con il governo Draghi e leggermente superiore a quello Conte II.
Questo processo di marginalizzazione del Parlamento non è solo numerico, ma qualitativo. Riducendo il numero dei rappresentanti, le commissioni parlamentari hanno visto i propri membri affannati nel cercare di coprire più incarichi contemporaneamente, con il risultato di un calo della produttività. Nel 2019, ad esempio, si erano tenute 2.472 sedute formali delle commissioni permanenti, per un totale di 1.243 ore. Nel 2023, dopo l’introduzione della riforma, le sedute sono scese a 2.187 e le ore dedicate sono calate a 955.
Un altro aspetto preoccupante è l’aumento della distanza tra eletti ed elettori. Il Parlamento, come ha rilevato anche L’Espresso, è sempre più periferico, e la distanza tra cittadini e istituzioni è sempre più grande. La riforma ha ridotto la rappresentanza diretta dei cittadini, aggravando il problema della legge elettorale attuale, che non prevede preferenze individuali. I collegi elettorali, ampliati a dismisura, hanno reso più difficile per i cittadini sentirsi rappresentati dai loro parlamentari, mentre il ruolo dei partiti politici è diminuito in molte aree del Paese, aggravando ulteriormente la situazione.
La riduzione del numero di parlamentari ha dunque contribuito a un Parlamento meno efficace e meno rappresentativo, in cui il dibattito democratico è soffocato dall’influenza sempre più forte dell’esecutivo. La produzione legislativa del Parlamento è in calo: nel 2019 erano stati approvati 302 emendamenti, contro i soli 95 del 2023. Questo è un segno evidente della riduzione della capacità propositiva del Parlamento.
A distanza di quattro anni dall’approvazione della riforma costituzionale e a due dalla sua introduzione, possiamo affermare che il Parlamento non è diventato né più efficiente né più economico. La riforma ha invece accentuato il processo di marginalizzazione dell’organo legislativo, lasciando sempre più spazio al governo nella definizione delle politiche del Paese. Questa tendenza trova piena continuità con la proposta di riforma del premierato avanzata dal governo Meloni, che mirerebbe a rafforzare ulteriormente l’esecutivo a discapito del Parlamento.