Home » Asset management » Stock market » Gestione dei rischi finanziari – I modelli VAR

Gestione dei rischi finanziari – I modelli VAR

Categorie Mercati Finanziari · Stock market
Vuoi leggere tutti gli articoli del network (oltre 10.000) senza pubblicità?
ABBONATI A 0,96€/SETTIMANA

Il film Margin Call di J. C. Chandor (2011) è senza dubbio una delle pellicole cinematografiche che non possono mancare nel repertorio degli amanti della finanza. I più attenti avranno sicuramente notato che Peter Sullivan, il protagonista interpretato da Zachary Quinto, afferma di servirsi di modelli VAR per effettuare simulazioni sulle perdite attese di breve periodo della banca per la quale lavora. La spiegazione che ne offre il personaggio, seppur molto sommaria e poco tecnica, ne riassume bene la ratio di fondo: i modelli VAR stimano le perdite attese in determinate condizioni su un titolo od un portafoglio di titoli.

Il Value At Risk

Ma ora abbandoniamo la finzione scenica e torniamo nel mondo della finanza per analizzare il modello nei dettagli. Il Value At Risk (VAR) è un indicatore di fondamentale importanza nell’ambito del Financial Risk Management e rappresenta la massima perdita potenziale di una certa posizione in un determinato orizzonte temporale e con un certo livello di confidenza (probabilità). Il maggiore punto di forza del modello risiede nel fatto che il risultato del calcolo è una perdita espressa in valuta: ciò lo rende un indicatore di agevole comunicazione (il risultato è comprensibile anche per chi non ha conoscenze quantitative) ed adatto alla valutazione dell’adeguatezza patrimoniale (il risultato è una potenziale perdita che deve avere coperture). Il VAR permette inoltre di confrontare tipologie di rischio e portafogli estremamente eterogenei.

Ipotesi alla base del modello

Nella sua formulazione originale proposta da JP Morgan (metodo parametrico) il Value At Risk si basa su un’ipotesi di fondo estremamente forte, che rappresenterà poi la maggiore pecca attribuita a questo approccio: le variabili aleatorie (cioè i fattori di rischio) sono normalmente ed identicamente distribuite, ovvero seguono una distribuzione gaussiana. In base alle proprietà di quest’ultima è nota la probabilità di ottenere valori compresi in un determinato intervallo centrato sulla media (intervallo di confidenza): nel caso del VAR questo intervallo rappresenta la probabilità che il risultato del calcolo sia corretto, ovvero che la massima perdita potenziale corrisponda effettivamente a quella calcolata. Facciamo un esempio. Costruire un VAR 99% significa che ci aspettiamo che 99 volte su 100 la massima perdita potenziale non superi quella da noi calcolata. Immaginando una distribuzione gaussiana, ciò significherebbe prendere in considerazione il 99% della probabilità totale, tralasciando solamente l’1% dei risultati nella coda di sinistra della distribuzione (l’1% peggiore). Come si può notare rimane sempre un certo livello di aleatorietà: maggiore è il livello di confidenza, maggiore la perdita potenziale (in quanto stiamo considerando un numero maggiore di casi possibili), ma è impossibile stimare un VAR al 100%. A meno che non abbiate una sfera di cristallo. Una volta scelto l’intervallo di confidenza sarà necessario stabilire anche l’orizzonte temporale della nostra analisi. Trattandosi di un’analisi su titoli all’interno del trading book, cioè di portafogli di titoli destinati alla negoziazione, gli orizzonti di analisi sono molto ristretti e vanno da un minimo di un giorno ad un limite che tendenzialmente non supera i 10 giorni. Anche in questo caso un maggiore orizzonte temporale determina una massima perdita potenziale maggiore, in quanto il periodo in cui possono presentarsi avvenimenti avversi si dilata.

Il calcolo del VAR

Il Value At Risk è espresso secondo la formulazione matematica:

dove VMi rappresenta il valore di mercato della posizione e σi la volatilità (cioè il rischio, espresso in scarto quadratico medio) del titolo. Il parametro α è un coefficiente il cui valore dipende dall’intervallo di confidenza considerato (ad esempio per un intervallo del 99% il coefficiente ammonta a 2,33), mentre la radice di t è la radice dell’orizzonte temporale, cioè del numero di giorni presi in considerazione dall’analisi. Dalla formula risulta intuitiva la proporzionalità diretta tra tutti i fattori: all’aumentare di ciascuno di essi corrisponde un incremento della massima perdita attesa, in quanto la posizione cresce di valore (VM) o il modello diventa più accurato (σi, α, t).
Il discorso fatto fino ad ora si riferisce al VAR di singoli titoli, ma il modello può essere esteso al calcolo della massima perdita potenziale di interi portafogli. Potrebbe sembrare superfluo ricordare come la costruzione di un portafoglio di titoli sia caratterizzato dal beneficio della diversificazione: il rischio di un portafoglio di titoli è minore della somma dei rischi dei singoli titoli che lo compongono. Lo stesso vale dunque per il Value At Risk: la massima perdita potenziale di un portafoglio di titoli è minore della somma delle massime perdite potenziali dei singoli titoli (sub additività). La formula di calcolo del VAR di portafoglio è la seguente (per semplicità consideriamo un portafoglio composto da due soli titoli, ma la formula può essere estesa per qualsiasi numero di titoli):

Con ρ1,2 che rappresenta il coefficiente di correlazione tra le coppie di titoli. Si può verificare come nel caso particolare in cui il tale coefficiente sia pari a 1 il VAR di portafoglio sarà pari alla somma dei VAR dei singoli titoli. Un ρ = 1 significa infatti che i due titoli variano nello stesso modo, ossia reagiscono in maniera esattamente identica a qualsiasi movimento del mercato: in questo caso limite non vi è diversificazione. Nel caso di più titoli saranno presenti tanti coefficienti di correlazione quante sono le coppie di titoli.

Criticità e debolezze del modello

Sebbene siano estremamente efficaci e diffusamente utilizzati da banche ed intermediari finanziari, le maggiori problematiche legate all’analisi della perdita attesa attraverso i modelli VAR sono determinate dalla loro stessa struttura. Il maggiore problema è rappresentato dalle ipotesi di base: la distribuzione gaussiana dei fattori di rischio, in particolare, rappresenta una semplificazione della realtà dei mercati molto utile dal punto di vista normativo (è alla base della teoria dell’efficienza dei mercati), ma limitata dal punto di vista descrittivo. I rendimenti tendono infatti ad assumere una distribuzione leptocurtica, a code spesse (fat tails), cioè una distribuzione caratterizzata da una densità di probabilità di eventi estremi maggiore rispetto alla normale. In parole semplici, gli eventi “eccezionali” non sono poi così tanto eccezionali. Ed a proposito di questi ultimi il VAR presenta un’altra consistente debolezza: sappiamo a quanto ammonta la perdita massima nel nostro intervallo di confidenza, ma cosa succede al di fuori di esso? Il modello non identifica quale possa essere la perdita massima in quella piccola percentuale di casi che non consideriamo nel calcolo: reputare impossibile un evento che è solo estremamente improbabile rappresenta il maggiore errore che le istituzioni finanziarie possano commettere. E che puntualmente commettono, come dimostra la frequenza sempre maggiore di Cigni Neri nei mercati odierni.

Lascia un commento