Home » Economia » Internazionale » Intervista al professor Amato 2: complottismo CFA e Cina

Gheddafi con Sarkozy, fonte: Controinformazione

Ecco la seconda parte dell’intervista al professor Amato, in cui discutiamo di complottismo riguardante il rapporto tra Gheddafi e Sarkozy con il franco CFA, e di una Cina che investe tantissimo nei Paesi africani.

In alcune lettere della Clinton si può leggere che con Sarkozy l’obiettivo principale della Francia fosse quello di limitare il potere di Gheddafi anche perché principale nemico del franco CFA. Si dice anche che Gheddafi stesso avesse accumulato circa 150 tonnellate di oro per sostituire il franco CFA. Se questa operazione fosse riuscita, quali pensa sarebbero stati gli effetti sui Paesi in questione? E quali potenziali effetti si sarebbero potuti riversare sulla Francia?

Qui entriamo nella zona del “complottismo”, un campo che non frequento affatto volentieri. Ci sono state certo fughe di notizie, ma, proprio perché sono delle fughe, non sappiamo fino a che punto esse diano un quadro completo della situazione. Non sappiamo, cioè, fino a che punto esse siano veridiche nel senso che non sappiamo che peso avrebbero in quadro completamente rivelato. Ciò detto, il fatto che la decisione di abbattere il regime di Gheddafi sia stata politicamente improvvida, e in ogni caso non dettata da motivi umanitari, mi sembra evidente, indipendentemente da qualunque idea complottistica. Non c’è bisogno di pensare che Sarkozy abbia voluto “far saltare” Gheddafi per la questione CFA. Il giudizio politico negativo su quell’operazione è che la destabilizzazione della Libia in seguito all’intervento ha portato a una destabilizzazione dell’intera Africa Subsahariana.

Che Gheddafi avesse ambizioni di egemonia panafricana è perfettamente compatibile con la costruzione del suo personaggio. Che tuttavia l’idea di costruire una moneta africana basate su riserve auree avesse un senso, francamente mi sento di escluderlo. La posta in gioco è in realtà un’altra.

Dietro le agitazioni e gli agitatori panafricanisti/anticolonialisti, talvolta ai limiti del folklore, c’è una questione politica fondamentale e seria, che è quella dell’autodeterminazione, cioè di una ripresa in mano della sovranità monetaria. Questo è evidente. Personalmente però la legherei a dinamiche meno scandalistiche e più profonde: siamo agli inizi di una nuova fase all’interno della storia della decolonizzazione, la quale è appunto un processo e non  qualcosa che è avvenuto istantaneamente e una volta per tutte negli anni Sessanta. La decolonizzazione ha conosciuto varie fasi: quella attuale è ai miei occhi una nuova fase, legata essenzialmente alla dimensione demografica. Siamo cioè di fronte al fatto, piuttosto inedito, che le società africane stanno diventando estremamente popolose, ossia società ed economie in cui diventano fondamentali, da una parte, la questione della piena occupazione, dall’altra, e necessariamente, anche la questione della rappresentanza politica.

In effetti, noi conosciamo un’altra società estremamente popolosa che ha avuto ritmi “cinesi”: si chiama Cina. Ma abbiamo anche dovuto constatare che lo sviluppo economico della Cina non è stato affatto accompagnato da uno sviluppo democratico. Il “la” alla crescita “cinese” della Cina è stato dato da un atto di feroce repressione: l’episodio di Piazza Tienanmen. In Cina è andata così: la questione democratica non ha mai intralciato la questione pianificatrice burocratica e tecnocratica della crescita. Personalmente non saprei se il modello cinese per l’Africa sia auspicabile o addirittura possibile. La demografia sta creando un problema di rappresentanza democratica.

Vorrei far notare che esiste una convergenza che dal punto di vista dei ragionamenti che ho appena svolto non è affatto casuale: la convergenza fra coloro che chiedono maggiore democratizzazione della vita politica africana e coloro che chiedono una revisione dei meccanismi monetari e degli accordi di cambio, in particolare per il franco CFA.

E questa Cina che entra a spallate nell’economia africana con investimenti, etc.?

In realtà la politica cinese non è mai stata quella della “spallata” ma quella del bussare alla porta, con un’efficacia nel “bussare” che è legata al payoff che la Cina sta offrendo. Cosa offre la Cina ai Paesi Africani? Quantomeno un’opzione ulteriore, ossia un grado di libertà in più, all’interno di un schema consolidato di “scambio ineguale”, giusto per citare Samir Amin. La Cina si sta cioè sta presentando come un altro acquirente di materie prime che per ciò stesso rende il mercato più interessante per il venditore. Fin quando i flussi di materie prime andavano unicamente verso gli ex paesi colonizzatori, il mercato rischiava di essere fortemente sbilanciato a favore dei compratori. Ora c’è un elemento di concorrenza, e la Cina, per potersi inserire in questo contesto geopolitico, avendo scelto in maniera sistematica di non penetrare politicamente e con le armi, è dovuta entrare con la forza di persuasione dei soldi. Da questo punto di vista la penetrazione è perfettamente riuscita. Il controllo cinese su parecchie materie prime cruciali per lo sviluppo industriale e particolarmente concentrate in Africa è molto forte.

L’operazione è riuscita sostanzialmente con uno scambio fra materie prime e beni manifatturieri. La Cina così facendo guadagna due volte. Il caso più evidente e più studiato soprattutto in ambito francese è il grande contratto minerario fra il Congo Kinshasa (fuori dall’area CFA) e la Cina, con cui i cinesi si sono assicurati un controllo trentennale sulle risorse minerarie congolesi, impegnandosi  in cambio a portare nuove tecnologie minerarie capaci di  rendere possibili gli scavi in profondità, laddove invece fino a ora molte miniere restavano ancora a cielo aperto, e pagando essenzialmente le materie prime estratte con programmi di opere pubbliche fatte molto spesso sono con materiali e manodopera cinesi. È chiaro che la Cina in questo momento ha già con la sua penetrazione messo in scacco persistenza egemonica dell’Occidente in Africa. Si veda il rapporto ISPI di quest’anno, significativamente intitolato “La fine di un mondo”. Il mondo che è finito è, per l’ISPI, quello a dominanza occidentale.

L’Africa, esattamente come al tempo della colonizzazione, come al tempo delle prime decolonizzazioni, e come alla fine degli anni Ottanta, si ritrova oggi a essere il “campo di battaglia” per una guerra geopolitica. La ridefinizione dei rapporti policentrici livello mondiale si gioca qui, essendo l’Africa il luogo di estrazione delle materie prime strategiche (uranio, coltan, terre rare,…) della nuova era tecnologica.

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