Da giorni si sente parlare delle proteste dei pastori sardi contro il crollo del prezzo del latte di capra e di pecora, sceso nelle ultime settimane sotto i 60 centesimi al litro. Le proteste proseguono in verità da mesi ma sono diventate molto rumorose e vistose solo questa settimana, anche grazie ad alcune iniziative degli allevatori.
Facciamo un po’ di chiarezza.
I pastori sardi chiedono che il latte di capra e di pecora, venduto prevalentemente all’industria casearia, venga pagato di più (almeno 1 euro + IVA).
I pastori sostengono che i grandi produttori di formaggi si siano accordati per fare abbassare i prezzi del latte (cartello). Il prezzo di 60 centesimi al litro che viene pagato in queste settimane ai produttori di latte, secondo gli allevatori, non è sufficiente a coprire le spese di produzione e per questo in molti hanno deciso di buttare via centinaia di litri di latte, piuttosto che venderlo sottocosto.
Il calo del prezzo sembra essere legato in particolare all’andamento del mercato del Pecorino Romano DOP, per la cui produzione viene impiegata più della metà di tutto il latte prodotto in Sardegna. Quando il prezzo del Pecorino Romano sale, come era successo due anni fa, sale anche il prezzo del latte; quando il prezzo del Pecorino Romano scende, scende anche il prezzo del latte. La produzione di Pecorino Romano, proprio per evitare grosse oscillazioni dei prezzi, è regolata da quote che vengono stabilite ogni anno, ma che secondo gli allevatori non vengono rispettate da molti caseifici anche per via delle multe molto basse.
Il problema secondo Coldiretti Sardegna è che 33 caseifici su 35 non avrebbero rispettato le loro quote, producendo più pecorino romano del dovuto provocando così un calo del prezzo.
I trasformatori del latte quindi per rifarsi della diminuzione del prezzo del pecorino romano, avrebbero scaricato tutti gli oneri pagando meno il latte dagli allevatori che quindi hanno messo in atto la loro protesta.
In totale sono 12.000 gli allevamenti nell’isola per un totale di 35000 occupati diretti. Le aziende sarde ospitano circa il 40% di tutte le pecore presenti in Italia, producendo 3 milioni di litri di latte che viene utilizzato principalmente per la realizzazione del pecorino romano (circa il 50-60%). La parte restante viene divisa tra il Pecorino Sardo DOP e il Fiore Sardo DOP (entrambi con una qualità e un prezzo superiore).
Ipotizzando motivi di ordine pubblico, il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha aperto un tavolo a Roma alla presenza anche del ministro dell’Agricoltura Gianmarco Centinaio, ma al momento non è ancora arrivata la fumata bianca.
La strategia di Salvini, che sta gestendo il tavolo aperto, è quella di far acquistare dallo Stato 67.000 quintali di formaggio in eccesso (costo 44 milioni) così da far salire il prezzo del prodotto. Nel frattempo il costo del latte salirebbe a 70 centesimi al litro, ma la proposta non è stata giudicata soddisfacente dai pastori.
Secondo Legacoop la soluzione proposta dal Governo sarà solo un tampone per 1 o al massimo 2 anni. Inoltre è una soluzione adottata senza grandi risultati per almeno 20 anni (perché è da 20 anni che il problema persiste).
Secondo l’associazione dei produttori la risposta più logica sarebbe quella di finanziare l’intera filiera accompagnando i pastori verso un processo di aggregazione che le renda più competitive in un mercato globale.
Tra le soluzioni proposte vi è anche l’adozione di strategia atte all’ottenimento delle certificazioni utili all’esportazione del latte e dei formaggi in Cina (dove il prodotto è apprezzato) in modo da poterne aumentare la domanda.
Per la produzione casearia sarda la bocciatura del CETA da parte del governo sarebbe un clamoroso autogol. La prova dell’accordo commerciale con il Canada ha prodotto numeri più che interessanti. Il pecorino sardo, ma soprattutto il pecorino romano, stavano iniziando a sperimentare cosa potesse significare esportare senza pagare i dazi doganali e arrivare al consumatore canadese sfruttando il marchio di origine protetta: «Nei primi mesi del 2018 abbiamo registrato una crescita del volume d’affari di circa 18 milioni di euro – spiega Salvatore Palitta, presidente del Consorzio del pecorino romano – e si tratta di dati parziali perché c’è voluto un po’ di tempo prima che il periodo di prova dell’accordo potesse andare a regime».
Peccato che l’autostrada commerciale aperta verso il Canada potrebbe essere stata chiusa perché la maggioranza del Parlamento italiano non ha intenzione di ratificare il CETA.
Un’opportunità sembra invece arrivare dal JEFTA. Secondo Assolatte:
“il progressivo taglio delle barriere tariffarie, in particolare per i formaggi duri, oggi assoggettati a un dazio che sfiora il 30 per cento del loro valore, aprono prospettive molto positive per i prodotti caseari italiani, già molto apprezzati dai consumatori nipponici”.
Nel 2018, precisa l’associazione di produttori, le imprese italiane hanno esportato in Giappone oltre 10mila tonnellate di formaggi, il 9% in più rispetto all’anno precedente. Bisogna aggiungere che l’Italia è il primo fornitore europeo di formaggi in Giappone e il quinto al mondo.