Recentemente ci siamo recati a Milano, presso lo studio del professor Amato, già noto per la questione del franco CFA ripresa da Di Battista nel corso di una trasmissione televisiva. Abbiamo colto l’occasione per parlare proprio della moneta in questione, di geopolitica e di prospettive future per la nostra eurozona.
Il professor Massimo Amato è attualmente titolare di tre corsi in ambito storico all’Università Bocconi: Storia, istituzioni e crisi del sistema finanziario globale; storia economica e del pensiero economico e storia economica. Tra le altre cose collabora con alcuni economisti africani come Kako Nubukpo.
Non parlerei di assimilabilità, piuttosto di parallelismo, nella misura in cui siamo di fronte a due aree monetarie non necessariamente caratterizzate da ottimalità, dotate di una moneta unica e aperte ai movimenti di capitali, e dunque, per via del trilemma di Mundell-Fleming, obbligate ad accettare una limitazione piuttosto importante delle politiche fiscali e monetarie nazionali. Da questo punto di vista c’è somiglianza.
La differenza è che il franco CFA è ancorato all’euro. Il tasso di cambio del franco CFA rispetto all’euro è fisso, laddove invece il tasso di cambio dell’euro rispetto al dollaro è variabile. Questo per la moneta africana costituisce un problema ulteriore, poiché trattandosi di economie che scambiano in realtà abbastanza poco tra di loro e che hanno un export imperniato soprattutto su materie prime, il fatto che i mercati delle materie prime per essi rilevanti siano denominati in dollari fa sì che un eventuale apprezzamento dell’euro rispetto al dollaro comporti un automatico e inevitabile apprezzamento del franco CFA rispetto al dollaro, e quindi una minore competitività dei prodotti esportati dall’area CFA sui mercati mondiali.
Un’altra differenza è che mentre nell’eurozona i movimenti di capitali sono liberi soprattutto all’interno fra paesi della zona, nella zona CFA la mobilità dei capitali, per quanto soggetta ad alcune restrizioni, è prevalentemente in uscita. Questo è uno dei motivi della creazione della moneta già nel 1945: la possibilità di rimpatriare senza rischi di cambio i proventi prima dell’attività coloniale e poi dell’attività di soggetti non africani in Africa (multinazionali, imprese francesi o comunque non africane).
Il ciclo si riferisce a paesi che adottano un currency board. Il Franco CFA è un accordo di cambio, non un currency board. Quindi non ci sono i vincoli stringenti connessi al currency board, che sottrae completamente l’autonomia monetaria. C’è formalmente un rapporto di collaborazione fra le banche centrali degli stati CFA e il tesoro francese per quanto riguarda la gestione delle riserve, ma non possiamo immaginare di applicare in maniera così stringente il ciclo di Frenkel.
Un altro aspetto, ben più rilevante, è che il franco CFA sembra essere la cristallizzazione di un particolare modello di sviluppo delle economie dell’area CFA, che le vincola in qualche modo a una dipendenza forte non solo all’esportazione, ma, in particolare, all’esportazione di materie prime.
I tassi africani nell’area CFA non sono propriamente “cinesi”, sono leggermente più bassi. E non sono neanche così omogenei. Abbiamo dei Paesi con tassi di crescita molto sostenuti (es. Costa D’Avorio ultimamente, ma precedentemente no), abbiamo però tassi di crescita alti anche al di fuori dei Paesi CFA, quindi non è possibile stabilire correlazioni univoche fra l’adesione fra questo regime di cambio e i tassi di crescita. Non possiamo dire però neanche l’inverso, ossia che senza il franco CFA sarebbero maggiori o minori. La questione non è tanto quella dei tassi crescita, quanto quella del modello di sviluppo e distributivo. Un modello economico basato sull’export di risorse minerarie conosce costrizioni piuttosto forti in termini di redistribuzione del reddito: la crescita può verificarsi senza un aumento corrispondente dell’occupazione interna. Di fatto, si tratta di gestire una rendita mineraria: come tutte le economie basate su materie prime, queste per definizione vivono di rendita.
La questione cruciale su questo tema è però ancora un’altra, e riguarda l’adeguatezza o meno di questo modello ai trend demografici che si sono già manifestati e che si rafforzeranno nel futuro, e che indicano il probabile raddoppio della popolazione africana entro il 2045/2050. Quindi la domanda è: questi tassi di crescita, che in sé non sono affatto bassi (concordo con Cottarelli), sono compatibili anche con una crescita economica capace di assorbire e creare posti di lavoro? Se ciò non fosse, saremmo di fronte a performance anche ragionevoli, e tali da rendere sostenibile il tasso di cambio e per certi versi auspicabile il mantenimento dell’accordo di cambio, ma d’altra parte avremmo degli “effetti collaterali” che rischiano di diventare con tempo non più collaterali, ma fondamentali e dirompenti.
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