Chi mastica la gestione del rischio non può non sapere che cosa siano il Value-at-Risk e l’Expected Shortfall. Sono le statistiche di base usate ad ogni livello nel mondo finanziario e che permettono di valutare il rischio stocastico associato a praticamente ogni distribuzione.
Negli uffici centrali dei principali istituti finanziari ci sono dei colletti bianchi adornate da costosissime cravatte pagate per un solo motivo: monitorare la quantità degli asset presenti a bilancio nella propria azienda e dire, in sostanza, quanto si rischi ad averli. Sono questi in realtà niente altro che i risk manager. Gli asset che danno più problemi dal punto di vista del rischio sono quelli finanziari: azioni, derivati e compagnia bella. Motivo? Sono di natura stocastica. Ogni singolo bene di natura finanziaria segue una propria distribuzione statistica, che può essere gaussiana, student’s T, Weibull etc. etc.
Date le distribuzioni quindi, queste possono essere messe assieme per poterne calcolare il rischio associato. Ma di che tipo si tratta?
Negli istituti in realtà sono svariati i tipi differenti di rischio che si incontrano, tra i quali ad esempio troviamo:
Esistono molti altri tipi di rischi ma già considerando questi capiamo perché a Basilea si scervellano continuamente (forse neanche troppo per alcuni) per cercare di evitare almeno quest’ultimo tipo di rischio, sistemando tutti gli altri.
Ed è così che nasce il Value-at-Risk. Un bel giorno del 1989 alla JPMorgan arriva una richiesta particolare: un sommario di una pagina per il rischio di mercato giornaliero da consegnare sulla scrivania del CEO entro le 4.15 pomeridiane. E’ così che nasce il report Wheatherstone 415. Questa misura diventerà lo standard mondiale del rischio, con il nome di RiskMetrics nel 1992. Nel 1996 con un’emendamento a Basilea 1 si introducono i modelli standard per i rischi di mercato e vengono accettati, previa validazione del comitato di Basilea.
Ma di cosa si tratta? Il VaR è una misura molto complicata per il calcolo del rischio associato secondo gli integrali di Riemann-Siltjes assicurandoci che la funzione sia misurabile secondo Lebesgue e a questo punto si possono introdurre i processi di Ornstein-Uhlenbeck.
Difficile? Beh, buon per voi, stavo scherzando.
La realtà è molto più semplice: il VaR niente altro è che il quantile della distribuzione. Sì, un semplice quantile.
Presa la distribuzione delle perdite il quantile 0,5 come sappiamo rappresenta la mediana. Ma se questo valore è preso al livello 0,99 questa misura conferisce un’informazione molto importante, cioè la perdita massa che non sarà superata con una probabilità del 99%. Certo, considerando sempre problemi di stima e di modello, cosa che diventa fondamentale quando, invece del livello 0,99 vuoi trovare il quantile 0,9999999 ad esempio.
Il VaR è dunque una misura di rischio che esiste sempre e risponde grosso modo alla domanda: con quale probabilità sopravvivo? L’Expected Shortfall, risponde alla domanda e se non dovessi sopravvivere, di che cosa muoio? O meglio, di quanto muoio e cosa mi porto dietro. Come si calcola? Beh, questa volta c’entrano purtroppo gli integrali. E non è uno scherzo.
In realtà il calcolo è molto semplice ma proprio per la natura dell’ES, che prevede gli integrali, si prevede la necessità che esista il momento primo della distribuzione. Ossia la Media. Questa cosa sembra scontata ma per alcune distribuzioni non lo è affatto, come per valori di parametro inferiori a 1 della distribuzione Pareto.
Detta molto semplicemente, l’ES è per distribuzioni continue l’integrale dal quantile prescelto (nel caso precedente 0,99) fino al quantile 1. Per distribuzioni discrete è la somma delle osservazioni comprese fra i due quantili di prima.