Molti studiosi della Finanza Pubblica rilanciano la necessità di ridurre il livello di debito pubblico rapportato al Pil, specie se questo risulta molto elevato. Tra le ragioni risultano: la forte esposizione agli umori dei mercati finanziari e una riduzione del tasso di crescita nel lungo periodo. Su quest’ultimo punto sono state sollevate alcune critiche portando l’esempio del Giappone. Sarà davvero così? Cerchiamo di scoprirlo insieme presentando i dati.
Nonostante il Giappone presenti un debito pubblico vicino al 240% del Pil (il più elevato del mondo), e un deficit medio, negli ultimi 22 anni (1995-2017), intorno al 3,9%, paga interessi sui titoli di stato molto bassi. Alcuni osservatori fanno notare che tutto ciò avverrebbe in quanto il Giappone detiene la sovranità monetaria: un paese che può contare sulla banca centrale come prestatrice di ultima istanza non sarebbe soggetto al rischio di default e non dovrebbe pagare premi agli investitori per compensare la possibilità che l’amministrazione pubblica non ripaghi i debiti accumulati.
Tuttavia, una gestione indipendente della politica monetaria non è riuscita a porre rimedio su altri fattori: la bassa crescita del reddito pro-capite e un basso tasso di crescita della produttività hanno caratterizzato l’economia del Paese. Infatti, nell’arco degli ultimi 25 anni (1995-2017), insieme a Grecia e Italia, il Giappone ha presentato un tasso di crescita del Pil pro capite (al netto dell’inflazione) tra i più bassi di tutti i Paesi avanzati. Le riforme realizzate negli ultimi anni, tuttavia, hanno permesso di migliorare le performance del Giappone, esattamente come quanto accaduto per il Portogallo: riforma delle pensioni, maggiore inclusione delle donne nel mercato del lavoro e un ricorso contenuto al deficit hanno invertito il trend di alcuni indicatori.
Perchè pur avendo un debito pubblico eccessivamente più alto di quello Italiano, il Giappone presenta performance migliori?
Effettivamente, con un tasso di crescita del Pil pari all’1,7% e un tasso di disoccupazione pari al 2,6%, i dati economici del Giappone risultano maggiormente favorevoli rispetto ai nostri. Infatti, alcuni punti di forza dell’economia Nipponica giustificano questa differenza: una contenuta spesa pensionistica e una diversa composizione del debito pubblico.
La spesa pubblica per pensioni giapponese è pari al 10,2% del Pil, mentre l’Italia, su scala Europea, è seconda solo alla Grecia con il 16,3%. Inoltre, il debito pensionistico, inteso come valore attuale netto degli aumenti di spesa nei prossimi decenni, è negativo per il Giappone ovvero pari al -31,7% del Pil, mentre quello italiano è positivo, pari al 47,2% del Pil, rivisto in aumento dopo l’introduzione di Quota 100.
Per ciò che concerne la situazione patrimoniale, il 90-95% del debito pubblico è detenuto dai giapponesi stessi. Non solo, il Giappone possiede, rispetto all’Italia, elevate attività finanziare e reali (su cui guadagna interessi che possono servire a pagare gli interessi sul debito): al netto di queste, il debito Giapponese scende al 126% del Pil.
Secondo alcuni Economisti, un debito pubblico molto elevato può frenare gli investimenti e di conseguenza il Pil potenziale di un Paese. Attraverso quale meccanismo? Per comprenderne le ragioni dobbiamo analizzare due meccanismi: il primo segue la Teoria Economica di David Ricardo mentre il secondo viene definito “crowding out“.
David Ricardo ci spiega che un elevato debito pubblico richiede un surplus primario più elevato e, quindi, bisogna tassare di più, penalizzando le attività produttive.
“Un’imprenditore può decidere di investire all’estero se le tasse che servono per il servizio pubblico sono troppo elevate.”
Il secondo modo per spiegare l’effetto frenante di un elevato debito pubblico è, invece, focalizzato sull’effetto che quest’ultimo può avere sui tassi d’interesse: infatti, una quota maggiore dei risparmi disponibili all’economia sarà assorbita dal debito pubblico. I tassi d’interesse saranno più elevati e gli investimenti privati per aumentare la produzione saranno più bassi. Infatti, il debito pubblico spinge fuori dal portafoglio dei risparmiatori (o di chi intermedia il credito) il debito privato ovvero quello che serve per finanziare gli investimenti privati e lo stock di capitale.