Una delle pietre miliari su cui si fonda il mercato del lavoro in Italia è la contrattazione collettiva nazionale. In sintesi essa permette di avere contratti omogenei (se non addirittuta identici) in tutta Italia. Per i sindacati è fondamentale che essa sia il punto centrale e, a loro dire, ciò permette di non discriminare i cittadini tuttavia nella pratica è proprio essa ad alimentare le disuguaglianze.
La contrattazione centralizzata riduce la dispersione dei salari nominali (banalmente perché viene fissato lo stesso livello nominale di salario) ma tende ad aumentare la dispersione dei salari reali poiché non tiene conto delle differenze nel costo della vita delle varie zone. Pensate ad un impiegato che guadagna 1200 euro netti a Milano e ad un impiegato che ne guadagna 1200 a Sassari. Il costo della vita a Milano è del 59% circa più elevata e ciò rende il salario reale dell’impiegato milanese inferiore.
Per calcolare il costo della vita ho usato il sito numbeo.com che raccoglie al suo interno i dati sui principali costi medi per 9733 città nel mondo.
Questa enorme differenza nel poter d’acquisto reale è anche alla base di un’altra grossa differenza ossia quella nei livello di occupazione.
Poiché il sud tende ad essere meno produttivo del nord (non tutte le imprese sia chiaro ma in media) il costo del lavoro per unità prodotta risulta più oneroso al sud e per questa ragione gli investimenti risultano più profittevoli al nord. Questo è il motivo alla base delle differenze occupazioni tra nord e sud e ciò è anche il motivo che spinge ogni anno decine di migliaia di cittadini del sud a spostarsi al nord in cerca di occupazione. Questo spostamento porta anche all’aumento della domanda dei beni al nord e quindi al loro livello dei prezzi. Ciò è particolarmente evidente confrontando i prezzi delle abitazioni.
In un recente lavoro di Tito Boeri, Andrea Ichino, Enrico Moretti e Johanna Posch viene analizzata la relazione tra contrattazione centralizzata e distribuzione del reddito confrontando le istituzioni che fissano i salari e i loro effetti sui mercati regionali del lavoro in Italia e Germania. I due Paesi pur sembrando molto diversi agli occhi dei lettori meno esperti in realtà sono due perfetti esempi per il confronto poiché entrambi soffrono di enormi differenze territoriali (Nord-Sud per l’Italia e Ovest-Est per la Germania).
In italia si è deciso di adottare la contrattazione nazionale nonostante l’alta differenza di produttività territoriale mentre la Germania, avendo differenze simili alle nostre, ha deciso di adottare la contrattazione aziendale dal 1996 infatti la Germania ha utilizzato “clausole di uscita” che consentono alle imprese di negoziare a livello locale con i sindacati, potenzialmente derogando agli accordi nazionali (Schnabel 1998).
Le imprese tedesche sono molto più in grado di mettere in relazione i salari nominali alla produttività locale di quanto possano fare le imprese italiane. Il paper mostra che i salari in Germania rispondono alle differenze nel valore aggiunto locale quattro volte di più che in Italia (l’elasticità dei salari al valore aggiunto è dello 0,19 in Italia e pari a 0,73 in Germania).
La contrattazione centralizzata ha quindi generato in Italia un equilibrio territoriale tale per cui i lavoratori del sud faticano enormemente per trovare lavoro. Se trovano un impiego, questo in termini di potere d’acquisto è meglio remunerato che al nord, ma i tempi di attesa in disoccupazione sono molto più elevati rispetto agli omologhi al nord. Ciò si traduce in una allocazione inefficiente delle risorse, con una disoccupazione e una dispersione dei redditi elevate.
Gli autori cercano anche di stimare i costi derivanti da questa inefficiente allocazione geografica in Italia in termini di salari e occupazione.
Se l’Italia adottasse un sistema simile a quello della Germania, con relazioni tra salari e valore aggiunto e tra disoccupazione e valore aggiunto uguali a quelle osservate in Germania, i salari medi nelle province meridionali diminuirebbero del 5,9% (o 53 centesimi l’ora), mentre l’occupazione al sud aumenterebbe di 12,85 punti percentuali.
A livello nazionale gli autori stimano che l’occupazione aumenterebbe di 5,77 punti percentuali e i salari del 7,45 per cento. Ciò equivale a circa 600 euro all’anno in più per ogni adulto in età lavorativa. Il divario nord-sud nel reddito pro capite si ridurrebbe dal 28% (dato pre-covid) all’11%.
Gli autori ci tengono a precisare che non si sta riproponendo il modello delle gabbie salariali poiché i prezzi andrebbero aggiustati localmente a livello aziendale e non a livello regionale. Se un’impresa del sud risultasse produttiva potrebbe permettersi di pagare una retribuzione più elevata.
Le differenziazzioni aziendali permetterebbero anche di ridurre un altro grande problema italiano ossia quello del lavoro nero. Ad oggi svariate imprese preferiscono non assumere in modo regolare poiché non sarebbero in grado di sostenere i costi del lavoro imposti a livello nazionale. Sia chiaro nessuno vuole giustificare salari da fame. Le imprese che non risulteranno in grado di contrattare un salario dignitoso semplicemente non avrebbero ragione di esistere.